Cadine (Trento), 9-10 ottobre 2010

(Commissione Internazionale EdU)

 

1.L’“amare per primo” dell’educatore

Nella prima parte della nostra riflessione sul nesso “arte di amare ed educazione” abbiamo sottolineato che mettersi nella prospettiva dell’amore significa, in un certo senso, uscire dai binari di una relazione tradizionalmente intesa, e mettere in evidenza la persona dell’educatore e la sua azione piuttosto che la sola sua dottrina. Non si tratta solo di insegnare, ma anche di mettere l’amore “a fondamento” dell’agire educativo.

      Una priorità di valore che riguarda la natura e la qualità della relazione, che ci porta decisamente nel cuore della questione antropologica stessa[1], dell’amare e dell’essere amati. Infatti, che cosa muove una persona ad interessarsi di un’altra persona, se non “volere il bene” di quell’essere? È l’orizzonte entro cui l’educazione stessa trova la sua più intima vocazione, che per natura è generativa.[2] Educatore, allora, è chi sa amare per primo e sa donare in modo disinteressato, al di là delle pur naturali aspettative, anche perché in campo educativo i risultati non sono per nulla scontati.

Ma è proprio questo rischio che fa dell’educazione il più coraggioso e lungimirante investimento a lungo termine, capace di vedere il giovane sempre con occhi nuovi, nella realtà del suo “essere”, ma anche nell’ottica del suo“dover essere”. Un modello pedagogico, questo, su cui si fonda anche tutta la teologia cristiana: l’Amore di un Dio, Padre di tutti, che per primo[3] ha preso l’iniziativa e ci ha amato - come sottolinea Chiara Lubich - “quando noi eravamo tutt’altro che amabili”[4].

 Ma in educazione chi sono “i meno amabili”?

Innanzitutto i più svantaggiati, i meno capaci o quelli meno disposti ad ascoltare e a impegnarsi in un percorso educativo. Ed è interessante notare, a questo proposito, come alcuni degli approcci pedagogici più fecondi dell’800 e del ‘900 siano nati proprio dal mettere al centro dell’attenzione i più difficili. Non solo grandi utopie, ma originali contributi di educatori che non si sono fermati di fronte alle prove e agli insuccessi, e hanno saputo coltivare prima di tutto in se stessi quell’ “amnistia completa nel cuore”[5], capace di vedere ogni giorno i giovani con occhi nuovi, per farli essere pienamente se stessi.

 

In campo educativo e scolastico sappiamo quanto sia difficile questa amnistia e quale ruolo determinante giochino le aspettative dell’insegnante nei confronti dei propri allievi. Per esempio, si è osservato che quando non si è capaci di uno sguardo sempre nuovo, si rischia a volte di essere ingiusti, condizionati dai risultati di precedenti prestazioni, da pregiudizi e stereotipi nei confronti dei nostri stessi figli o degli allievi. Così dimostrano gli studi sull’effetto Pigmalione[6], nel quadro dello studio delle cosiddette “profezie che si autorealizzano”: se un insegnante è convinto che uno suo studente sia particolarmente dotato (o, al contrario, che sia poco dotato), lo tratterà, per quanto inconsciamente, secondo questo schema precostituito. Il risultato è che spesso il giudizio/comportamento dell’insegnante finirà per influenzare il comportamento stesso del bambino, che alla lunga tenderà a conformarsi all’idea, positiva o negativa, che l’adulto gli ha trasmesso su di sé.

 Come educatori, allora, possiamo equilibrare queste distorsioni valutative predisponendoci prima di tutto alla comprensione della persona nella sua interezza, facendola sentire “capace”, degna della nostra fiducia. Ciò richiede una continua rivoluzione interiore dell’educatore, maestro in quella sublime arte del saper ricominciare, capace di riconoscere limiti, ma soprattutto qualità e potenzialità dei giovani. È volontà procreativa, pronta a donar prima di tutto se stessi.

 Come dimostrano innumerevoli ricerche sul valore contagioso del dono[7], l’effetto di questo slancio generativo degli educatori è che esso provochi, prima o poi, una riposta di reciprocità da parte dell’allievo, che si sentirà libero di rispondere alla fiducia dell’educatore, magari impegnandosi nello studio[8]. Dal punto di vista pedagogico, quindi, l’amare ha una sua intrinseca, naturale correlazione con la reciprocità, anche se questa non è automatica, né deve esser pretesa. Così, il nostro “amare”, come sottolinea Maurice Nedoncelle, è sostanzialmente un atto educativo[9], in quanto incessantemente ricerca di rendere l’altro, a sua volta, “amante”[10].

 

2.Il “come sé”

 Potremmo sostenere allora che l’educazione, da sempre, è il più gigantesco, rivoluzionario investimento di speranza, da cui ha origine anche la domanda più impegnativa che un educatore responsabile dovrebbe spesso rivolgere a se stesso: “Da dove prendo il coraggio di educare, di dare fiducia, sostenere, incoraggiare?”. Una domanda che, da un punto di vista etico e antropologico, trova la sua risposta in quella regola aurea presente in quasi tutte le religioni e le culture: “Ama il prossimo tuo come te stesso”[11], misura con cui possiamo orientare anche il nostro comportamento verso l’altro. Infatti, come provocatoriamente si chiedeva l’autore dell’Ecclesiastico (14,5) “chi è cattivo verso se stesso con chi sarà buono?”: domanda ripresa da K.G. Jung[12] che invitava a scoprire in se stessi “il più piccolo dei fratelli”, il vero “nemico da amare”.

 

Conoscenza e amore di sé, conoscenza, responsabilità e amore per gli altri non sono separabili. Infatti, come annota acutamente Romano Guardini, in educazione è questo forse il passo più decisivo, che inizia sempre dalla vita stessa dell’educatore, perché “è proprio che io lotto per migliorarmi che dà credibilità alla mia sollecitudine pedagogica per l’altro[13]: “(perché) io stesso in prima persona mi protendo in avanti e mi affatico a crescere”[14].

In questo sguardo interiore l’io avverte l’importanza di porsi come altro da sé, in una specie di gioco allo specchio, in cui ci si può perdere, ma anche ritrovare. “Chi sono io?”. “Chi sono come educatore?”. “Cosa voglio essere?”. Si tratta di un profondo processo di coscienza, di dialogo intrapersonale, che ha come riferimento il Sé dell’educatore in quanto primo destinatario dell’educazione stessa. Una riflessione che porta al cuore dei nostri bisogni, di quelli più autentici che ci legano agli stessi fondamentali aneliti, alle stesse paure e speranze di tutti gli esseri umani, ancor più a quelle dei giovani[15]: bisogno di appartenenza, di accettazione e di fiducia, di attenzione, di empatia e comprensione profonda, e nello stesso tempo di distinzione, di iniziativa e di partecipazione, di autenticità, armonia-congruenza tra sé e il mondo, gli altri.

 La cura, quindi, diventa educativa nella misura in cui l’educatore per primo sa immedesimarsi con la verità di se stesso, un sostanziale e concreto richiamo a cercare l’identità del nostro essere, quale condizione essenziale anche per una relazione autenticamente educativa.

 

3.La logica del “farsi uno”

 Si tratta di un processo circolare in cui l’educatore vive la cura come atto di profonda partecipazione alle istanze del proprio Sé e, nello stesso tempo, a quelle dei giovani, visti come simili, degni di quell’attenzione e di quella sollecitudine che l’educatore, in quanto persona, vorrebbe fossero destinate anche a sé.

Da un punto di vista più generale, Chiara Lubich definisce il “farsi uno” come un entrare il più profondamente possibile nell'animo dell'altro; capire veramente i suoi problemi, i suoi bisogni; farsi carico completo dei suoi pesi, addossarsi le sue necessità, come le sue sofferenze, “privi di ogni impazienza”, “vuoti di sé”, “sperando nell'altro il trionfo del bene, della giustizia, della verità”[16].

 

Ma cosa succede se ci comportiamo così?

Le persone avvertono che noi ci carichiamo di ciò che le opprime, e si sentono libere, perciò più pronte ad accogliere quel messaggio che vorremmo donare loro[17].

 In questa prospettiva, educare significa saper entrare nella mente e nel cuore degli educandi. In questo senso, l’amore educativo è prima di tutto premura, in quanto interesse attivo per la loro vita e la loro crescita. Non un’attenzione casuale, ma intenzionale logica di incontro e dialogo con la loro più autentica umanità. Perché ciascun essere umano ha bisogno che gli venga riconosciuto un suo significato, un posto nel mondo, nel cuore di un’altra persona. Come esorta spesso Ernesto Olivero[18] nei suoi incontri con i giovani: “Se parli, e ti ascolto, tu mi cambi”. Anche chi ascolta e sa ascoltare con profonda attenzione ed empatia viene a sua volta arricchito, profondamente cambiato, se non altro per quello sforzo continuo non tanto di stare di-fronte all’altro, ma di esserci, con tutto se stesso, dentro la situazione e il contesto comunicativo.

 Infatti, come sostiene il filosofo Martin Buber, “una società si può dire umana nella misura in cui i suoi membri si confermano fra loro”[19] mettendo a tacere le nostre aspettative, facendo spazio prima di tutto a quella conoscenza etica dell’altro[20], come la definisce Emmanuel Lévinas, che è tale nella misura in cui la nostra attenzione è in grado di salvaguardare la sua trascendenza. Solo così l’altro potrà trovare il tempo e il modo di auto-rivelarsi nella sua originale identità.

 È un rapporto educativo che sa farsi sguardo che “circonda con delicatezza”[21], come lo definisce Martin Heidegger, che rinuncia al gesto invasivo dell’imposizione e dell’indottrinamento per fare vuoto dentro di sé, da cui far scaturire proprio quello spazio accogliente, che per natura è educativo, cioè permette, come dice l’etimologia, di “e-ducere”, di trar fuori: un’operazione possibile solo se l’educando è libero di manifestarsi, di fidarsi, di interrogare e di interrogarsi, dando espressione a tutte le proprie potenzialità. Non una semplice opzione di tolleranza, ma sfondo autorevole da cui far scaturire il dialogo, la problematizzazione, la proposta, ma anche la critica e la necessaria correzione, al di là di facili forme di permissivismo. È spirito di paziente attesa e annuncio integrale del vero.

 Si tratta di un effetto tanto più profondo quanto più l’educatore è consapevole dell’importanza della personalizzazione, attraverso cui viene in maggior risalto “la centralità dell’individuo e, nel medesimo tempo, la concezione etica dell’uomo e della società”. Da un punto di vista più generale, quindi, la personalizzazione “è soprattutto una spinta morale, che ci spinge a moltiplicare gli sforzi per porre in modo più efficace a disposizione delle persone i servizi di cui hanno bisogno”[22].

Questo atteggiamento verso l’altro e questo modo di impostare la relazione si traducono allora in un rinnovamento della “vocazione” stessa dell’educatore, la cui “mission” è altissimo servizio alla persona, tanto più efficace quanto più l’educatore stesso è convinto “che lo sforzo costruttivo deve nascere dalle energie positive e attive interiori dello studente”[23]. La relazione così intesa dà vita ad un processo di “aiuto reciproco”, il cui fine non è quello di sostituirsi all’altro, ma di sviluppare una graduale “competenza personale”, fiducia nelle proprie capacità di superare la sfida con se stessi, capaci di affrontare responsabilmente situazioni sempre nuove.

 Facendo nostra una frase di don Milani, ”la pedagogia ha da insegnarci una cosa sola: che i ragazzi sono tutti diversi e che ogni momento dello stesso ragazzo è diverso"[24]. Se è così, allora l'educatore deve amare in ogni attimo presente, nel modo in cui le circostanze concrete lo richiedono: esortando, ammonendo, spronando, rimproverando, ma sempre per amore. Come ricordava S. Agostino: "non si entra nella Verità se non attraverso l'Amore"[25]. È in questo orizzonte che nasce e si coltiva anche la nostra passione di educatori, la nostra vera arte, che sa coniugare la competenza scientifica e metodologico-didattica con la capacità di amare, che è generativa per eccellenza, perché capace di quello sguardo creativo, sempre nuovo, che sa trar fuori, edificare e sostenere, risvegliando la nostalgia e il coraggio di ricerca del vero-bene.

 


[1]       G.M.Zanghì, La notte della cultura europea, Città Nuova, Roma 2007.

[2]       In fondo, “essere amati significa sentirsi dire: Tu non devi morire”, come acutamente afferma Gabriel Marcel (Il mistero dell'essere, Borla, Torino 1971, 2 voll., II, pp. 131-32).

[3]      Cfr. C. Lubich, L’arte di amare, Città Nuova, Roma 2005, p. 23-24

[4]      Ibidem., p. 51. Lo stesso Amos Comenio elaborò uno stile pedagogico basato sulla fraternità, nella consapevolezza della presenza di un Dio che è Padre di tutti.

[5]       C. Lubich., La vita un viaggio, Città Nuova, Roma, 19944, p. 16.

[6]       R.Rosenthal, L. Jacobson ,Pigmalione in classe, Angeli, Milano 1974.

[7]       Cfr. R. Roche, L’intelligenza prosociale, Erickson, Trento 2006.

[8]       Spesso uno studente ama una determinata materia perché ammira e ha fiducia nell’educatore.

[9]       M.Nedoncelle, La réciprocitè des consciences, Aubier Montaigne, Paris 1948, p. 84. Lo stesso C. Marx afferma: “Se amate senza suscitare amore…, se attraverso l’espressione di vita di persona amante non diventate una persona amata, allora il vostro amore è impotente…” (cit. in E. Fromm, L’arte di amare, Mondadori, Milano1986, p. 36)

[10]    Come S. Anselmo d’Aosta spesso sottolineava, il contrassegno distintivo della vera educazione è il clima di gioia e di speranza che si instaura fra persone che si vogliono bene (Eadmero di Canterbury, Vita di S. Anselmo, Jaca book, Milano 1987).

[11]     Mt. 7,12

[12]   K.G. Jung, Psychologie und Erzichung, Rascher, Zürich 1946.

[13]     R. Guardini , Persona e libertà. Saggi di fondazione della teoria pedagogica, La Scuola, Brescia 2000, p. 222. Sul rapporto conoscenza di sé e conoscenza degli altri, cfr. L. Pareyson, Esistenza e persona, Torino 1985, pp.205 e ss.

[14]    Ibidem, p.222. E. Fromm, a questo proposito, afferma: “Gli egoisti sono incapaci di amare gli altri, ma sono anche incapaci di amare se stessi” (L’arte di amare, op. cit., p. 69).

[15]     Cfr. H.A. Maslow, Motivazione e personalità, Armando, Roma 1990. Come sottolinea P. Ricoeur, l’io stesso è conoscibile proprio per questa alterità rispetto a sé (Il sé come altro, Jaca Book, Milano 1993).

[16]    Cfr. C. Lubich, L’arte di amare, Città Nuova, Roma 2005, pp. 69-90.

[17]    Vengono in mente, a questo proposito, le pagine di Carl Rogers sull’empatia e sull’insegnamento centrato sullo studente. “Se la creazione di un’atmosfera di accettazione, comprensione e rispetto è la base più efficace per facilitare quella forma di apprendimento che si chiama terapia, non potrebbe essere la creazione di quell’atmosfera anche la base di quella forma di apprendimento che si chiama istruzione?” (cfr.Terapia centrata sul cliente, La Nuova Italia, Firenze 1997, p. 217).

[18]   E.Oliviero, Non bussate è già aperto, Mondadori, Milano 1997.

[19]    M. Buber, Il principio dialogico e altri scritti, S. Paolo, Milano 1993.

[20]   E. Lévinas La traccia dell’altro, Pironti, Napoli 1986, p. XVI.

[21]   M. Heidegger, Seminari, Adelphi, Milano1992, p.179.

[22]   D. Hopkins, “Introduzione”, in OCSE-CERI, Personalizzare l’insegnamento, Il Mulino, Bologna 2008, p. 29.

[23]   Ibidem

[24]   L. Milani, Lettera a una professoressa, Editrice Fiorentina, 1996.

[25]   Agostino d’Ippona, Contro Fausto Manicheo, 32,18

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