LA SFIDA EDUCATIVA DEL PENSARE
Oggi si insegna a pensare?
La domanda presuppone la risposta ad un problema di fondo: stabilire che cosa significhi “insegnare a pensare”.
Se “pensare”, nel significato più autentico, significa “pensare con cura”, “ponderare”, dobbiamo chiederci quanto spazio sia effettivamente riservato oggi a questo irrinunciabile esercizio della mente.
La domanda diventa ancor più urgente se consideriamo il fatto che i nostri giovani si trovano a gestire una così vasta quantità di informazioni che rischia di dominarli.
Come si impara a percepire più correttamente? Come si riorganizzano le informazioni? Come s’impara ad astrarre ed a controllare un procedimento mentale? Le varie ricerche dimostrano che non è automatico che le abilità di pensiero vengano apprese naturalmente. Esse richiedono un lunga, intenzionale cura del pensiero riflessivo[1].
Nella nostra cultura contemporanea, perciò, ci troviamo di fronte ad una sfida gigantesca, che riguarda la complessità del sapere e l’uso consapevole ed esperto dei processi di pensiero. Un problema, questo, non solo cognitivo, ma interconnesso con questioni etiche, di scelta e di utilizzazione delle conoscenze.
La fondamentale distinzione tra “conoscere” e “pensare”[2] è stata chiaramente introdotta da Hanna Arendt: conoscere ha per oggetto le questioni scientifiche, mentre pensare è quell’attività della mente che ha per oggetto i problemi di significato, ossia le questioni rilevanti dell’esistenza[3]. Non si tratta, quindi, solo di conoscere, ma di pensare con saggezza, riconsegnando il pensiero alla sua naturale funzione di “strumento di civiltà”, di nuova e continua “umanizzazione”. Tutti, perciò, dovremmo sentirci chiamati in causa ed essere consapevoli che se nelle nostre comunità educative viene trascurata “l’arte di insegnare la vera intelligenza”, tutta l’intelligenza nelle sue molteplici risorse, i giovani rischiano di acquisire “l’abitudine della stupidità”[4].
Dobbiamo trovare il coraggio, allora, di chiederci quale cultura intendiamo promuovere e quale posto assegnare nei nostri programmi di studio alle questioni di significato (sull’amicizia, sulla cooperazione, sul bene, sul male, sul dolore o sulla felicità…). A queste domande non ci sono risposte da dare a priori. Esse vanno cercate nel dialogo, tra pluralità di punti di vista e di significati, nello sforzo di fare sintesi e di dare senso non solo al pensare ma anche all’agire[5]. Ed è qui che inizia la vera sfida del pensiero: spiegare la complessità dell’uomo, del reale, del pensiero stesso, adottando una prospettiva policentrica, valorizzando le diversità, i singoli elementi, integrandoli poi tra loro in una nuova, originale unità. Da questo punto di vista, l’attività del pensare può esser vista come uno schiudere gli occhi della mente[6], un processo riflessivo e meta-riflessivo[7] della mente stessa, di distinzione e di unità, di scoperta del molteplice e dell’uno, in sé e oltre sé.
La domanda quindi “Perché pensare?” ha una risposta altrettanto ovvia e sconcertante quanto la domanda medesima: “Pensare per essere”.
Il “pensare” deve caratterizzarsi come “essere”, non nel semplice significato di “esistente”, ma di colui che si interroga, viene fuori, esce, cammina. Comporta quindi la fatica del pensare, lo sforzo del concetto. E’ un “esodo”, che richiede di andare da noi stessi all’altro da sé, nella ricerca e nella testimonianza della verità, di amore per il vero sapere.
Per apprendere, quindi, è necessario soprattutto “imparare ad apprendere”, ma apprendere con senso, cioè comprendere. E ciò non ha a che fare solo con i metodi di studio, ma anche con i processi di costruzione-decostruzione di schemi mentali, con il mondo delle emozioni e, soprattutto, con le scelte etiche verso cui orientare il pensiero stesso.
A questo riguardo, ritengo interessante soffermarmi su un aspetto del pensare che chiama in causa direttamente problemi e processi di ordine culturale e interculturale. Si tratta della cosiddetta “sfida della globalizzazione”.
Per poterla affrontare, una prima condizione è di comprendere che il cambiamento non riguarda solo “gli altri”, ma prima di tutto noi stessi, e che le nostre “vecchie mappe” oggi non possono più funzionare. In questa direzione, il sapersi decentrare dal nostro punto di vista richiede di coltivare una visione policentrica, di purificarsi dalle manipolazioni, dalle superficiali generalizzazioni[8] e di esser guidati solo da uno sguardo sincero per la verità.
Una seconda condizione per aprire la nostra mente è di liberarci dalla presunzione della superiorità del nostro pensiero su quello degli altri. Troppo spesso, ancora, in famiglia, a scuola, nelle chiese, nelle nostre comunità, nella politica, viene rinforzato l’uso di questo modello. Ci riesce difficile immaginare, pensare a modi diversi dai nostri schemi, fuori dai nostri confini, a storie diverse dalla nostra storia[9].
Lo stesso insegnante, se vuole davvero formare, deve cominciare ad imparare qualcosa dai punti di vista degli studenti a cui insegna. In realtà, egli sa veramente educare nella misura in cui sa apprendere, nell’interscambio di pensieri e tentativi di correzione reciproca. Anche l’errore, perciò, è parte integrante del pensiero, quale inevitabile passaggio per lo sviluppo e l’educazione; non quindi punto finale di un processo di conoscenza, ma il suo culmine epistemologico.
La capacità di pensare, quindi, richiede l’interiorizzazione di processi mentali, che non sono frutto esclusivo di un’elaborazione individuale ma di un incontro, di un’interazione[10]. Il compito dell’educatore, quindi, non è di uniformare, ma di ricondurre ad una sintesi originale i diversi punti di vista, stimolando le potenzialità, favorendo la partecipazione creativa dei propri allievi[11]. Questa è la nuova dignità che noi dobbiamo saper restituire all’uomo; qui, probabilmente, sta la sfida di un’educazione alla libertà, non solo dall’ignoranza del non sapere, ma soprattutto dall’ignoranza del non saper pensare e del non saper pensare insieme.
Socrate, in lotta con il modo decadente tipico del suo tempo, si riferisce al pensiero come testimonianza della verità e come rimedio (“pharmacon”) contro i mali della vita. Solo la divinità è sapiente, mentre il sapere umano vale poco o nulla, per cui chi ritiene di possedere il sapere, e pretende il sapere assoluto, in realtà tradisce la vera conoscenza. L’uomo, quindi, deve prima di tutto saper riconoscere la propria finitezza.
Ma se il sapere come “sapere per essere” parte dal riconoscimento della propria finitezza, qual è il suo fondamento, il senso vero, la verità verso cui tendere?[12]
Un modello di risposta ci viene dal testo “Gesù Maestro” di Chiara Lubich. Il discorso qui assume una sua caratteristica struttura argomentativa: non cerca tanto di descrivere la realtà, quanto di comprenderla nella sua ragione fondativa. Si propone, cioè, di pensare non solo alla realtà ma a tutta la realtà, applicando all’osservazione quel “principio di trascendenza” che permetta di andare oltre il “principio di evidenza”[13]. Il pensare, quindi, non inteso solo come un’opzione logico-scientifica di verità, ma piuttosto come certezza dello spirito, e quindi come comprensione interiore. Essa non esclude affatto la ricerca e la spiegazione dei nessi causali, ma ne giustifica il significato entro un quadro di valore.
Occorre precisare, quindi, che l’opzione così decisamente espressa verso un modello trascendente di conoscenza (espresso per i cristiani dalla vita e dall’insegnamento di Gesù) non è da intendere come un’essenza definita a priori, ma vera e propria opera di ricerca, di intima connessione tra una pedagogia dell’esistenza con una pedagogia dell’essenza[14]. Da questo punto di vista, Gesù, quale uomo-Dio, riassume le caratteristiche della realtà e dell’utopia, della temporalità e della trascendenza[15].
Infatti, quando Chiara afferma che “Loppiano è una scuola tutta particolare e originale…” e che “non sono i libri, le aule, gli studi, le scuole che la fanno scuola”, ma è la presenza di un Maestro, di Gesù, con le sue “lezioni molto particolari, che non hanno niente a che fare neanche con i più grandi maestri della terra”, non intende svalutare l’insegnamento né lo studio. Infatti, sia l’uomo sia Gesù sono maestri, anche se in forme e a livelli diversi: l’uomo insegna verità contingenti, suffragate dalla ragione, mentre Gesù-Maestro insegna verità universali, che parlano alla coscienza.
E ciò potrebbe apparire agli uomini, anche ai più saggi, come una “scienza che è stoltezza”, cioè “non ragionevolezza”, in quanto non centrata esclusivamente sulla ragione. Ma è proprio questo il passaggio più significativo del discorso di Chiara: qui si apre ad una scienza-sapienza[16] non contraria alle dimostrazione, né all’indagine psicologica e sociale, ma che le ingloba e, nello stesso tempo, le trascende come scienza della coscienza. L’orizzonte si allarga e si innalza oltre, al di là del confine che il pensiero posmoderno, tutto autocentrato, sembra incapace di superare.
L’invito di Gesù che Chiara comprende come chiamata a “lasciare i maestri” e a seguire i Suoi insegnamenti[17], può esser inteso come ripresa del tema prima introdotto del rapporto tra scienza e sapienza. La ricerca di una fonte primaria di senso diventa il motivo dominante, una questione di scelta gerarchica in cui il significato viene prima dell’oggetto stesso di conoscenza.
E’ Gesù che dà forma a tutti gli altri significati. Egli è il Senso Infinito che raccoglie i diversi significati finiti. Da questo punto di vista il “sacrificio di tutte le verità che gli uomini possono darci” non richiede la loro rinuncia, né il rifiuto della necessaria autonomia della ricerca scientifica, con obiettivi e metodi propri. C’è piuttosto una ricontestualizzazione di senso che non si trova nella scienza in quanto tale[18].
Trova spiegazione così l’invito di Gesù:“E non fatevi chiamare ‘maestri’ perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo”. Gesù, è ovvio, non intende affermare che la comunità non abbia bisogno di maestri, ma di testimoni di vita, orientati non su se stessi ma verso Lui, che è Amore.
Un pensare è vero, quindi, se non si ripiega su di sé ma sa farsi pensiero esodale, se da monologo sa farsi racconto: di sé a se stessi e di sé agli altri; e se sa farsi dialogo: con il proprio mondo interiore e con il mondo sociale e culturale.
E’ così che si dà vita ad una comunità di ricerca, ben diversa da quello che si intende oggi per “comunità di scienziati”[19]. Essa è più che altro una comunità “in ricerca”: come tale non rinuncia certamente alle rigorose leggi della razionalità (pensiero critico), allo sviluppo della scoperta e dell’immaginazione (pensiero creativo), ma fa leva sul senso di appartenenza e di condivisione, che lega i suoi membri tra loro (pensiero come cura).
Il concetto di cura è paragonabile a quello di servizio. Infatti, come conclude Gesù nel brano di Matteo: “Chi è il più grande tra voi sia vostro servo”. Gesù invita, quindi, ad usare il pensiero non come potere dell’uomo sull’uomo, ma come via di responsabilità reciproca. Chiede di rinunciare al potere, non come rinuncia a pensare, ma come scelta del non-potere, cioè di servire[20]. Anche il pensare, allora, se “per amore”, può diventare un autentico atto di servizio alla persona, all’umanità.
Posiamo chiederci allora come il pensiero possa tradursi in atto d’amore. E’ una dinamica che unisce vita e pensiero, teoria e prassi, ricerca personale e dialogo. E’ un processo di ascolto, di dono e di comunione, di un pensare che è compartecipazione, introduzione, attraverso il Figlio-Gesù, nello Spazio e nella Logica della Trinità[21].
In questa Logica, Gesù sulla croce che grida “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” è il vertice dell’amore, “il punto culmine, la più bella espressione dell’amore”[22], in quanto “miracolo dell’annullamento di ciò che è”. Il pensiero fecondo, quindi, è tale se è “vuoto di sé”[23]. “Il nulla allora non è visto più in antitesi all’essere, o come atto di svuotamento…, ma l’essere stesso vissuto come amore. Nelle varie “lezioni” di Chiara Lubich nulla, dono e amore sono strettamente correlati. Gesù Abbandonato ne è l’emblema: il nulla, perché è il dono estremo, l’estremo amore”[24].
E’ la stessa logica che dovrebbe muovere il pensiero che si permea d’amore, si fa uno con l’amore. In tal modo - per amore - io perdo il mio pensiero, lo sposto, lo faccio tacere per accogliere la ricchezza del pensiero e della totalità che è nell’altro. Solo un cambiamento di questo tipo può portare ad una sintesi costruttiva, dinamica, capace di superare le frammentazioni e accogliere la molteplicità dei saperi[25].
A livello pedagogico, vorrei proporre, a mo’ di proposta di ricerca e di riflessione, alcuni punti irrinunciabili da sviluppare per una reale, efficace metodologia rivolta all’educazione del pensiero[26]:
· pensare (sviluppo delle capacità cognitive-metacognitive)
· pensare a sé (sviluppo del senso di autoperercezione e di auto-
· pensare all’altro (sviluppo delle capacità di decentramento affettivo e cognitivo)
· pensare con l’altro (educazione del pensiero sociale-cooperativo)
· pensare per l’altro (educazione del pensiero morale-altruistico)
Finalità e obiettivi non certo facili e immediati, ma di cui un vero educatore deve saper assumersi personalmente e collettivamente la responsabilità, per ritrovare insieme il coraggio dell’educare, di schiudere i nostri occhi, quelli dei nostri giovani, verso spazi nuovi, di vera intelligenza.
[1] J. Dewey, Come pensiamo, La Nuova Italia, Firenze 1961. Con il termine “strategie cognitive e metacognitive” si intende riferirsi a quell’insieme di azioni mentali usate deliberatamente per meglio ottimizzare le procedure del pensiero di fronte al pericolo della frammentazione del sapere e di una “coriandolizzaione della cultura”. Se “l’usa e getta”, in un certo senso, può andar bene per una cultura da supermercato, certamente questo non può esser accettabile per le nostre giovani generazioni.
[2] H. Arendt, Le origini del Totalitarismo, Bompiani, Milano 1978.
[3] Secondo quest’ottica, M.Heidegger, sostiene che il tempo presente manca di pensiero, perché, pur a fronte di un aumento esponenziale di conoscenze, manca o è quasi assente un pensiero meditante, che sappia interrogarsi sulle questioni di senso, che muovono e danno spessore all’esistenza umana (Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976).
[4] D. Lewis, L’arte di insegnare l’intelligenza, SEI, Torino 1983, p. 23.
[5] von Foerster H., Sistemi che osservano, Astrolabio, Roma 1987. E’ ciò che sottolinea anche G. Bateson quando annota che, purtroppo, tutte le questioni fondamentali vengono trascurate nella scuola, con il rischio di rendere stupidi gli studenti (cfr.Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1990).
[6] Arendt H., La vita della mente, Il Mulino, Milano 1987.
[7] Secondo l’approccio costruttivista di E. Morin, dal momento che la conoscenza è soggetta ad errori, è necessario aver cura di come viene interpretata la realtà e, quindi, dar vita a quella “conoscenza della conoscenza” che, pur nel limite proprio del pensiero umano, è garanzia per una mente aperta e una “testa ben fatta” (La testa ben fatta, Cortina, Milano 2000).
[8] T. Todorov, L’uomo spaesato, Donzelli, Roma 1997
[9] A. Sen, La democrazia degli altri. Perchè la democrazia non è un’invenzione dell’Occidente, Mondadori, Milano 2004. Se prendiamo, per esempio, il concetto di “Città”, in senso pedagogico può esser inteso come dimensione storica di una comunità, in cui i legami tra persone e gruppi ne costituiscono la trama essenziale (relazioni interpersonali e sociali), ma può significare una “città ideale”, in cui il legame, che fonda, dà senso e unitarietà, alle varie relazioni è appunto la condivisione di un medesimo Ideale. L’educazione, quindi, avrebbe come scopo lo sviluppo di una comunità storicamente e geograficamente collocata (“qui”), ma contemporaneamente, dentro e oltre il tempo e lo spazio, cioè universale, perché animata da un Ideale che la unisce a tutte le altre comunità, passate, presenti e future, in uno sforzo collettivo verso il medesimo scopo. Da questo punto di vista, la crisi radicale che investe oggi l’educazione non è tanto metodologica, ma assiologia. Non sarebbe, cioè, una crisi di strumenti ma di contenuti valoriali. Essa non riguarda tanto il “come”, ma il “perché”, la scelta e la giustificazione dei fini da proporre (Cfr. E. Giammancheri, M. Peretti- a cura di- L’educazione morale, La Scuola, Brescia 1977).
[10] A.Cerini, G. Granchi, F. Pirovano, Il viaggio dell’eroe. Menti, mappe e visioni per vivere il cambiamento nel terzo millennio, Angeli, Milano 2005
[11] M.Zambrano invita a cercare una parola che sia unita all’essere, per invitarlo a intraprendere un cammino(cfr. Chiari nel bosco, Feltrinelli, Milano 1991).
[12] Come afferma E. Morin, è sul senso di finitezza e di limite che si basa anche la comprensione, quale “etica della comprensione”, orientata alla tolleranza. Infatti 2se sappiamo compredere prima di condannare, saremo sulla via dell’umanizzazione delle relazioni umane” (I setti saperi necessari all’uomo futuro, Cortina, Milano 2001, p.104. Un significativo riferimento al senso del limite umano è rintracciabile nella tradizione monastica, in cui il “pregare” si configura non solo come adorazione ma come “domanda”, un chiedere alla verità di manifestarsi. “Nell’abbandono disponibile alla rivelazione dell’Assoluto, il monaco traccia un sentiero del pensare” che non è un adeguamento alla correttezza logico-sintattica ma al significato autentico della verità (cfr. C. Scilironi, In cammino verso l’uomo, S. Paolo, Milano 1994, p. 24).
[13] H. Husserl denunciava, la pericolosa perdita di senso della scienza moderna. Essa è tanto più grave se rapportata al campo educativo, in cui dovrebbe costituire la finalità prioritaria (cfr. L’idea della fenomenologia, Laterza, Bari 1992, p.64; cfr. anche C. Nanni, L’educazione tra crisi e ricerca di senso, LAS, Roma 1986).
[14] Cfr. B. Suchodolski, Pedagogia dell’essenza e pedagogia dell’esistenza, Armando, Roma 1965; inoltre, M. Debesse, G. Mialaret, Trattato delle scienze pedagogiche, vol. 1, Armando, Roma 1971, p.99).
[15] Alla luce di questo Modello-Orientamento di pensiero, l’educazione non va interpretata come semplice verità rivelata, ma affrontata contemporaneamente seconda una rigorosa analisi, che richiede un’adeguata ricerca e spiegazione sul piano razionale (cfr. il titolo originario del “Proslogion” (1077) di S. Anselmo: Fides quarens intellectum; per un inquadramento dei problemi educativi trattati dai Padri della Chiesa e dai grandi teologi medioevali, cfr. G. Groppo, Teologia dell’educazione, in “Enciclopedia pedagogica”, VI, La Scuola, Brescia 1994, pp.11787-98).
[16] Ci si riferisce qui al noto rapporto e distinzione tra saggezza e intelligenza. Come affermano anche gli studiosi più rappresentativi delle scienze cognitive, “occorre occuparsi del pensiero che porta alla saggezza piuttosto di quello che determina l’intelligenza. In fondo, se si diventa saggi non è così difficile poi diventare anche intelligenti. Se si comincia invece dall’esser intelligenti si hanno poche speranze di diventare saggi, perché è facilissimo cadere nella “trappola” dell’intelligenza” (cfr. E. De Bono, Io ho ragione, tu hai torto, Sperling e Kupfer, Milano 1990).
[17] E’ qui evidente la profonda affinità spirituale tra Chiara Lubich e S. Agostino, e quella più pedagogica con Clemente Alessandrino, entrambi affascinati dalla figura di Cristo, Signore e Pedagogo dell’Umanità. Così anche negli scritti di R. Guardini sulla Pedagogia cristiana (cfr. C. Fedeli, Introduzione a R. Guardini, Persona e libertà, La Scuola, Brescia 1987, p. 24).
[18] Anche il paradigma ecologico oggi ha elaborato una chiara consapevolezza del limite del metodo oggettivo (cfr. L. Mortari, Epistemologia della ricerca pedagogica, Editrice Universitaria, Verona 2003, pp. 31-36).
[19] M. Lipman, Educare al pensiero,, Vita e Pensiero, Milano 2005.
[20] Come ben si esprime Carlo Scilironi “potere del non-potere è il servizio”(Op. cit., p.115).
[21] Sul concetto di Trinità, vista attraverso l’ottica di Gesù-Abbandonato, P. Coda scrive: “Dio è Sé (l’Essere) “divenendo”, in Sé, l’Altro da Sé: morendo a Sé, come Padre, “essendo” (generando) il Figlio, e “ritrovando Sé” nella Koinonia-libertà che è lo Spirito. L’Essere-Dio di Dio è dunque tutto e solo nel dinamismo della sua vita “inter-peronale”, in cui ciascuno dei Tre è Dio, l’Uno, in quanto “non è”, in quanto “si dà”, in quanto dà ciò che è più suo, l’Esser-Dio (P. Coda, A. Tapken, a cura di, La Trinità e il pensare, Città Nuova, Roma 1997, p.15).
[22] C. Lubich, Mistero d’amore, «Gen», 18 (1984), 2-3, p. 3.
[23] C. Lubich, Conversazione ai focolarini, 8.12.1971, cit. in J. Povilus, Gesù in mezzo nel pensiero di Chiara Lubich, Roma 1981, p. 83.
[24] H. Blaumeiser, Un mediatore che è Nulla, “Nuova Umanità”, 3-4, 1998.
[25] P. Coda, Alcune riflessioni sul conoscere teologico, “Nuova Umanità”, 122, 1999.
[26] Cfr. M. De Beni, Prosocialità e altruismo, Erickson, Trento 2000.