FONDAMENTI  DI METODO - LE VIE DELL'EDUCAZIONE

 

Metodo o metodi?

Parlare del metodo, significa sostanzialmente parlare del “come”: come farò in questa o in quella situazione nella quale mi trovo ad operare?

Noi educatori ed insegnanti, che siamo anche “tecnici” dell’istruzione e dell’insegnamento, utilizziamo, in modo più o meno consapevole ogni giorno metodi di insegnamento della lingua o della matematica, metodi di gestione della classe e dei gruppi, metodi di discussione e di argomentazione, metodi per incrementare la creatività o la riflessione critica. O anche metodi di approccio psicologico e relazionale a persone singole, gruppi, realtà sociali di vario tipo.

Ma affrontare la questione del “come”, comporta anche confrontarsi con quei due stati d’animo che così spesso percepiamo: quello della ricerca di sicurezza, di certezza, e quello forse più ricorrente dell’incertezza, del non sapere, appunto, come fare.

Abbiamo a nostra disposizione una grande ricchezza e varietà di metodologie, che però può anche disorientarci se manca un quadro di riferimento complessivo che riguarda l’azione educativa nei suoi fondamenti. Il metodo, in educazione, deve, infatti, integrarsi coerentemente all’interno di una visione pedagogica complessiva che lo spieghi e lo giustifichi.

 Questo mio intervento cercherà di evidenziare alcuni aspetti metodologici prendendo spunto anche dal testo di Chiara Lubich che in questi giorni stiamo approfondendo: è un contributo che si iscrive all’interno di una più ampia riflessione – di ordine storico e epistemologico – sul significato e sull’uso del metodo, specialmente in ambito educativo.
 
  

Lungo il percorso del concetto [1]

 Methodosdal greco, significa “percorso”, “strada”, “cammino”. Il nostro “come” di prima, quindi, è ricerca continua e ricorrente della “via” più efficace e coerente per raggiungere una determinata meta.
 
Il metodo è storicamente legato anzitutto al problema dell’acquisizione della certezza in campo conoscitivo. Socrate, ad esempio, allude al metodo della “maieutica”, all’arte dell’ostetrica che fa venire alla luce la verità: verità che non è il dato di fatto evidente e scontato, l’opinione superficiale, la presunzione di un sapere imposto (“doxa”), ma che emerge soltanto dal difficile parto della ricerca comune, del dialogo creativo, a partire dall’umile consapevolezza di “non sapere”.

Per Platone il metodo si differenzia in due diverse modalità: esistono anzitutto delle prescrizioni negative, intese ad evitare gli errori, e ci sono delle prescrizioni positive, o regole euristiche, finalizzate alla costruzione della vera conoscenza.

Anche noi ci confrontiamo quotidianamente con il dubbio riguardo a ciò che insegniamo e a come le persone apprendono, a ciò che facciamo e alle conseguenze della nostra azione in un dato contesto. Questo duplice problema –utilizzare l’errore per creare vera conoscenza e proporre dei percorsi coerenti, efficaci- è presente fin dall’inizio nella riflessione e nella pratica dell’educare.
 

All’inizio dell’età moderna il metodo vive il suo periodo aureo; Bacone riprenderà la bipartizione platonica con la notissima distinzione tra pars destruens e pars costruens: ci vuole una prima fase di liberazione da preconcetti, errori, pre-giudizi che influenzano negativamente la nostra conoscenza, al quale segue poi un secondo momento, che, se tutto procede bene, ci dà la possibilità di fare un vero passo avanti nella conoscenza. Nel “Discorso sul metodo” di Cartesio, una delle opere che fondano il pensiero moderno, ecco emergere l’importanza e il valore delle regole cosiddette “positive”, che derivano, in genere, dall’analisi di un’impresa conoscitiva esemplare. In questa dinamica tra certezza e incertezza, tra senso del noto e del sicuro e necessità di cercare il nuovo, viene in nostro aiuto non tanto una teoria da adattare o ricette da applicare, ma esperienze esemplari, percorsi conoscitivi, “buone pratiche”, che hanno dimostrato la loro efficacia.

Proprio in questo momento storico appare la figura di Comenio. La Riforma protestante ha avanzato l’esigenza di istruzione per tutti; l’organizzazione delle nascenti istituzioni scolastiche richiede una sistemazione metodologica: ecco che nasce all’interno del discorso pedagogico, un campo di studio nuovo e peculiare, il metodo appunto. Volere insegnare “tutto a tutti” pone, infatti, il problema di coniugare ed articolare in modo nuovo l’insegnamento e l’apprendimento, mettendosi come obiettivo quello di un sapere che in tutte le sue dimensioni sia tendenzialmente disponibile ad ogni persona, in ogni momento della vita.

L’Umanesimo e il Rinascimento danno così il loro frutto più duraturo, la nascita di una nuova visione dell’educazione che, come ha affermato qualche decennio fa Maria Zambiano proprio a proposito del metodo, assomiglia all’inizio di una nuova vita, una scoperta non solo cognitiva ma anche educativa, sociale, esistenziale.

 Ma, se guardiamo lo sviluppo del pensiero europeo, ci accorgiamo che questa scoperta viene sostituita ben presto da un’altra preoccupazione, che diviene quasi un’ossessione: quella di raggiungere la certezza dell’atto conoscitivo. Tutto il razionalismo europeo – che ha in Kant il suo rappresentante più illustre- si costruisce intorno al progetto di dare regole certe alla conoscenza razionale. Tale preoccupazione impedisce, in un certo senso, alla ragione di poter entrare in altre dimensioni che sono quelle non indagabili solo razionalmente: la vita, il senso, l’etica, l’alterità.

Se ne rendeva perfettamente conto il grande filosofo tedesco, il quale, a seguito di una “ragion pura” scientifica, elaborò una “ragion pratica” –del cuore e dell’etica- ed una “ragione estetica” – della bellezza e della finalità -. 

Quella spinta originaria e creativa del metodo come apertura totale (conoscitiva e non) verso l’“essere”, delle cose, della persona umana, del mondo, con il razionalismo diventa piuttosto chiusura all’interno delle proprie logiche formali e dei concetti rigorosamente fondati, alla spinta verso il nuovo si sostituisce la ricerca della sicurezza e ci si ancora alla ripetizione dell’uguale.  

Anche in virtù di questo particolare atteggiamento conoscitivo, troppo ancorato alla ricerca di certezza, siamo arrivati ad una vera e propria dimenticanza dell’essere e delle ragioni profonde della conoscenza. Che stia forse anche qui la ragione di quel senso di smarrimento, di mancanza di orizzonti e strategie innovative, che anche come educatori sentiamo? Proprio in quanto educatori, crediamo invece che la ricerca del metodo deve essere piuttosto orientata alla scoperta del nuovo, dell’inedito, oltre che del “certo” e del “sicuro”.

 All’inizio del novecento, nel cuore della crisi dei fondamenti di quella certezza razionale, un altro grande filosofo riparte dal metodo. E’ Husserl a chiedersi di nuovo come entrare in modo razionale e condivisibile nell’interiorità dell’uomo, come aprirsi un varco verso le questioni fondamentali della vita, del senso, dell’identità. E’ il metodo fenomenologico, che in certo senso riapre la strada verso il nuovo, verso l’inedito. 

Su questa strada cammineranno poi l’esistenzialismo e il personalismo.

Anche noi, l’abbiamo detto all’inizio, cerchiamo fondamenti per la nostra attività e riflessione formativa. In questo abbiamo come compagni di strada Martin Buber con la sua dialogicità e il valore dato alla relazione, Emanuel Levinas con il posto primario dato all’Altro, Emanuel Mounier con la riscoperta della persona, Edith Stein e tanti altri.

  
“Pars destruens e costruens”[2]
 

Se il testo della Lubich che andiamo leggendo è anche (ma non solo!) il racconto di un percorso, e quindi anche di un metodo, il primo passo mette in evidenza una sorta di pars destruens: lascia i maestri e segui me. Notiamo che la Lubich ricorre dapprima ad un’argomentazione negativa, paradossale: laparticolare esperienza educativa che propone come modello esemplare, può sembrare ai più una follia, una stoltezza. Anzi, essa può anche essere considerata una “non dottrina, un non insegnamento”. Risentiamo qui l’eco di uno dei momenti fondamentali del pensiero occidentale, la notissima Lettera VII di Platone:

 

“ Su queste cose non c’è, né vi sarà, alcun mio scritto. Perché non è, questa mia, una scienza come le altre, essa non si può in alcun modo comunicare ma come fiamma s’accende da fuoco che balza: nasce all’improvviso nell’anima dopo un lungo periodo di discussioni sull’argomento ed una vita vissuta in comune, e poi si nutre di se medesima”[3]

 L’argomentazione della Lubich attualizza in certo senso questa fondamentale lezione platonica, per cui l’educazione non è trasmissione di un insegnamento statico, ma è un “discorso vivente e animato”; e con le parole della Lubich che abbiamo ascoltato, “risposta alle esigenze della vita”, “risposta alle domande che gli uomini di tutti i tempi possono porre”.

 Nella sua esperienza, la scoperta del Maestro diviene centralità di un principio ermeneutico “vivente”. E’ questa una scoperta che “libera” dalla dipendenza, che libera perfino “dai maestri”, e mette la persona, in modo attivo e responsabile, al centro del processo di apprendimento. Da Rosmini fino a tutta la pedagogia cattolica del novecento, questo sarà uno dei temi fondamentali del personalismo pedagogico, che la Lubich rinnova profondamente, dando al principio ermeneutico Cristo – Verità la dimensione intersoggettiva e trascendente del “tra”, che abbiamo iniziato a definire, e che Platone stesso – come abbiamo sentito – fonda nella comunione tra persone, nella intersoggettività, diremmo oggi.

Il secondo atto, conseguente al primo, potremmo invece definirlo una pars costruens: il “vuoto completo”, infatti, è per mettere al centro il codice di una nuova vita, il Vangelo.

Tuttavia, possiamo chiederci, non si corre in questo modo il rischio di ricadere in un’educazione che sia solo trasmissione statica di verità?

Che ciò non sia è spiegato nel passaggio successivo. La pars destruens, infatti, non è tanto descritta come “paura dell’errore”, ma, al contrario, costituisce la condizione per una nuova, personale e trascinante esperienza del vero. Solo una nuova e originaria esperienza della verità vissuta in prima persona, può aiutare ognuno di noi a scoprire quanta verità, e bontà e bellezza, sono presenti non solo nel Vangelo, ma anche in quelli che il Concilio chiamava I semi del Verbo in ogni cultura, in ogni pensatore.

Il vuoto completo, allora, serve alla luce, il metodo indicato è orientato alla possibilità di essere illuminati interiormente nella propria personale ricerca di verità.

  
 
Dal “metodo”… “ i metodi” [4]
 

Possiamo allora dire di aver trovato nel testo della Lubich, anzitutto un “grande metodo”, che è la ri-proposizione – originale per il contesto della post modernità -   di un atteggiamento fondamentale, conoscitivo ed esistenziale, che riporta l’uomo al dialogo con l’Essere, con il mondo, con l’alterità.

 Gli educatori, in particolare, possono trovare un fondamento antropologico-pedagogico che può aiutarli a farli uscire dall’impasse di una pratica educativa spesso affogata da metodi senz’anima, preoccupata solo di essere “tecnicamente efficace”, ma che poi, per eccesso di tecnicismi, perde ogni reale efficacia.

 

Oltre a questa grande apertura concettuale e filosofica, sul piano più immediatamente pragmatico possiamo individuare alcuni atteggiamenti che vanno ad indirizzare il nostro agire educativo quotidiano proprio dal punto di vista metodologico, ponendosi come coerenti conseguenze sul piano dell’agire.

 

Priorità alla relazione

 

 La relazione, si è già detto, è il luogo indispensabile per ogni efficace azione educativa. Questo vale anche per l’apprendimento e ha immediate conseguenze pratiche:

·          il soggetto educando viene veramente e concretamente valorizzato, reso attivo e partecipe con tutte le sue risorse;

·          il gruppo-classe non è più un ‘accidente’, ma diventa risorsa, acquista consistenza educativa: gli apprendimenti cooperativi entrano nella prassi didattica normale, le esperienze extrascolastiche trovano spazio e considerazione;

·          il rapporto fra gli educatori può essere luogo di confronto e condivisione sia per la progettazione (qui si fonda l’inter-disciplinarietà) sia per la rielaborazione di esperienze, di risultati e di insuccessi. Così si potenzia e si dà consistenza scientifica al proprio agire educativo.

Nel rapporto si valorizzano le persone in quanto fini, mentre vengono relativizzati i mezzi (le tecnologie e le tecniche didattiche, i libri, gli audiovisivi, i programmi, gli orari, …).

In ciò essi ridiventano quel che devono essere: strumenti nelle mani delle persone-fini. Da queste verranno continuamente inventati o re-inventati, e dunque resi più efficaci.

I contenuti di conoscenza proposti, sono acquisiti come frutto di ricerca comune, fatti proprie e interiorizzati da ognuno, perché ognuno è stato reso partecipe della loro “conquista”.

Nella relazione la Verità stessa si disvela come dialogo e come processo, che si arricchisce continuamente del dono dell’altro.

 

·          Alcuni atteggiamenti importanti per l’apprendimento

Da tutto quanto detto emerge un orientamento fondamentale: non si può cercare la verità ammassando libri, anzitutto perché essa non è una sommatoria di nozioni.

“E’ meglio una testa ben fatta che una testa ben piena”, ripete oggi Edgar Morin citando Montaigne; e anche noi diciamo qualcosa di simile: mettere i libri in soffitta come una premessa che ci aiuta a riscoprire la dimensione dell’“essere” accanto e prima del “sapere” e anche del “saper fare”.4

E per quanto possa sembrare lontano dal comune intendere lo studio, possiamo notare che tante ricerche e proposte educative e pedagogico – didattiche vanno proprio in questa direzione:

  • Privilegiare il metodo rispetto al contenuto;
  • Privilegiare l’esperienza rispetto alle acquisizioni “libresche”.
  • Privilegiare gli atteggiamenti rispetto alle nozioni;
 

Vediamo quindi lo “spostare i libri” non tanto come un’azione negativa, ma come un principio metodologico dinamico, che mette in moto la conoscenza e tutto l’essere dell’uomo, che richiede una vasta gamma di atteggiamenti e orientamenti cognitivi, volitivi, emozionali ed affettivi. Vediamone alcuni:

 
  • Mettere tra parentesi il proprio punto di vista,
  • decentrarsi,
  • arrendersi all’evidenza,
  • prendere le distanze dalle proprie conoscenze, teorie e pregiudizi.
 

Così come risulta importante:

 
  • Dare fiducia al punto di vista altrui;
  • Aver fiducia nella possibilità di risoluzione dei conflitti di interpretazione;
  • Lasciarsi portare in territori ed argomentazioni sconosciute o inesplorate;
  • Guardare in modo nuovo problemi e situazioni che crediamo già conosciute e per questo “esaurite”.
 
Rapporto teoria/prassi:
 

Da quanto è stato detto si capisce e si chiarisce meglio il nesso teoria-prassi. Per il dibattito pedagogico questo problema è ben lungi dall’essere risolto; ma l’opzione di fondo che possiamo cogliere dal paradigma metodologico dell’unità è che l’uomo non può utilizzare l’intelligenza come una facoltà separata dal resto del proprio essere. Una delle indicazioni che stiamo sperimentando è quella di insegnare a studiare non soltanto studiando, ma insegnare a studiare vivendo e sperimentando ciò che si studia; non solo con l’intelligenza ma anche con il cuore: amando. Diamo a questa parola tutto il suo contenuto evangelico, dove amore significa anche discernimento, fare delle scelte, prendere posizione, dire dei sì e dei no. L’amore e la conoscenza così vissuti unificano l’uomo in se stesso e potenziano al massimo tutte le sue facoltà. Non si tratta quindi di far fare agli alunni delle attività accanto o a corredo degli studi, ma di impostare la ricerca della conoscenza e della verità come avventura totale, etica, esistenziale ed estetica (il diritto alla bellezza!). In questo modo, la verità vissuta dagli educatori si rivelerà enormemente potenziata da quella particolare capacità comunicativa che è l’esempio, una capacità “meta-comunicativa” alla quale sembra così sensibile l’umanità di oggi, troppo stimolata da parole vuote.

 Come si vede, il “grande metodo” produce un’infinità di possibilità applicative, tutte sostanziate dall’amore: non più una semplice sommatoria di “tecniche” ma parte attiva dell’arte di educare, inscindibile dall’arte d’amare e di conoscere.
 
 
Giovanni Avogadri


 

 

[1]    “Ogni metodo salta fuori come un incipit vita nova, che si tende verso di noi con la sua inalienabile allegria. Nel Discorso cartesiano si ode l’alleluia. L’eco, nella scoperta della “Clartè”, della grazia ricevuta dall’oscura, sacra, Madonna di Loreto.” (Maria Zambrano, Chiari del bosco, Feltrinelli, Milano 1991)

 

[2] “Sorge ogni metodo da un istante glorioso di lucidità che sta più in là della coscienza e l’inonda. Così, essa la coscienza, esce da tale istante vivificata, rischiarata, davvero fecondata.” (Maria Zambiano, Chiari del bosco, Feltrinelli, Milano)

 

[3] Platone, lettera VII

[4] “(…) E così, solo il metodo che si facesse carico di tutta la vita avrebbe successo (…) un metodo nato da una incipit vita nova totale, che risvegli tutte le zone della vita e se ne faccia carico” Maria Zambiano, Chiari del bosco)

 

4 J. Delors, Nell’educazione un tesoro, Roma, Armando 2003

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