ALLA SCUOLA DI CHI ?

In una società senza padri come oggi si presenta soprattutto in Occidente, potrebbe apparire quasi provocatoria la domanda: “Alla scuola di chi?”.

Ma, se con Freire e altri, guardiamo l’educazione come “un modo di intervenire sul mondo”[1], possiamo constatare che la storia della civiltà può essere riletta proprio alla luce dei maestri che ne hanno illuminato le diverse ere, fino a quella attuale.

E’ una storia che attraversa culture ed epoche; che ci presenta maestri assai diversi fra loro, anche se accomunati da una stessa grande passione; che ci porta via via a scoprire civiltà e contesti che hanno influito sull’azione educativa e che, al tempo stesso, hanno beneficiato della sua azione.

Le diverse teorie educative, nel sottolineare la relazione tra ambiente, azione dell’educatore e azione dell’educando, hanno via via privilegiato l’uno o l’altro di questi tre soggetti che nel testo di Chiara Lubich su Gesù Maestro[2] ci vengono presentati in stretta interazione, facendoci intravedere una nuova categoria interpretativa della ricerca e sperimentazione pedagogica.

 

La polis e la scuola

           

Guardando all’ambiente, possiamo notare che fin dall’antichità il gruppo sociale era luogo privilegiato dell’educazione, dove i giovani imparavano dagli anziani. In molte civiltà il maestro viveva con i propri allievi che, crescendo di numero, davano spesso vita ad una convivenza, che a volte assumeva i contorni di una cittadella[3].

E’ significativo, poi, che sia stato proprio l’affermarsi della polis in Grecia a dar vita ad una vera e propria educazione che, partendo dall’educazione fisica, andava abbracciando la crescita del cittadino, sviluppando una teoria pedagogica strettamente connessa con il bene civile: dai “cenacoli di discepoli” di Pitagora (VI sec. a.C.) che prevedevano la vita in comune, all’ “Accademia” di Platone ove maestro e discepoli vivevano insieme e ogni attività aveva funzione educativa, dal “Giardino” di Epicuro al “Portico” di Zenone.

Il Cristianesimo dei primi secoli, con la sua forte componente comunitaria, vide nel gruppo che si riuniva attorno all’anziano (presbyteros) il “luogo” privilegiato per l’educazione, sottolineando allo stesso tempo il valore imprescindibile dell’educazione familiare.   Vere e proprie cittadelle si andranno poi formando attorno alle Abbazie, centri culturali ed educativi per secoli.

Nel Rinascimento il modello di scuola fu quello del collegio (sia legato a figure di grandi maestri che ad ordini religiosi), ove la vita in comune abbracciava le più diverse attività.

Ma è soprattutto nell’età moderna che l’educazione si rivolge a tutti e guarda alla formazione di persone che devono essere soggetti attivi nella società. Con l’Attivismo pedagogico, la convivenza dell’educatore con gli allievi “dalla mattina alla sera” è proprio vista non come strumento di controllo, ma “per educarli”[4]. Il luogo privilegiato dell’educazione, sottolineava lo psicologo e pedagogista svizzero Adolphe Ferriére (1879-1960), è proprio dentro la vita di ogni giorno, nella società ove si lavora e si agisce.

 

Alla scuola dei maestri

 

Guardando all’educatore, possiamo osservare come il termine maestro, dal latino magister (magis = di più, colui che aiuta ad essere di più), che indicava inizialmente un comandante, aveva assunto il significato di signore e poi di maestro artigiano o di musica.

Oggi questo termine usualmente indica due aspetti spesso sovrapposti o interferenti: maestro come guida[5] (colui che risponde ad una vocazione e compie un’opera oblativa, gratuita, motivata dall’amore al bene) e maestro come insegnante (che sviluppa una professione dimostrando specifiche competenze e la capacità di farne partecipi altri).

Figure di tali maestri le possiamo ritrovare fin dall’antichità nell’Egitto dei faraoni, nella Cina di Confucio, nella religione del popolo ebraico e poi via via risalendo ai Sofisti, a Socrate, Platone, Aristotele per giungere ad Agostino, Tommaso....

Nella gratuità che deriva dalla rinuncia a godere del potere del sapere per aiutare gli altri, si rispecchia la benevolenza divina (da quella degli déi mitologici che donano all’uomo la conoscenza del fuoco... a quella dell’Amore del Padre nel cristianesimo) e si evidenziano come maestri per eccellenza i salvatori (Gesù, Buddha...) e i portavoce (i profeti) che sono nello stesso tempo testimoni di quanto affermano. Attorno a loro si crea un alone di seguaci, attratti non solo dai loro gesti ma dalla bellezza e dalla sublime altezza dei loro ideali di vita.

Si potrebbe qui richiamare tutta la tradizione pedagogica cristiana pre-medievale che fa riferimento ad una Pedagogia divina in cui il livello divino si innesta ed anima quello umano: il pedagogo per eccellenza è Dio che indica il cammino verso la Verità.

Nella figura di maestro-testimone si evidenzia plasticamente la necessità di un modello pedagogico trascendentale (metaeducativo), nel quale l’educatore non si pone in cattedra per ammaestrare, nel senso di indottrinare, ma per fornire una sua “versione”. Il dono del proprio punto di vista ha lo scopo non di uniformare, ma di stimolare e valorizzare i diversi punti di vista e, quindi, far emergere le potenzialità e gli atteggiamenti partecipativi e creativi degli allievi.

  

Alla scuola del Maestro

 

Chiara Lubich si innesta in questa corrente di vita e di pensiero e pare possibile affermare che, se il suo testo Gesù Maestro da una parte può esser letto sotto il profilo di modello teologico ed esperienziale, dall’altra può dar il via a nuove e suggestive ipotesi di ricerca pedagogica che concorrano a costituire una teoria.

Anche ad una prima lettura, si nota come questo testo sia orientato direttamente sulla figura di Gesù-Maestro-Modello[6]. Non, quindi, un’astratta adesione ad un modello tramandato, ma un’esperienza personale di incontro, autentico e vivificante, storicamente situato, con la Persona di Gesù.

Egli è Maestro[7] perché con i suoi insegnamenti conduce, sostiene ed orienta; ed è Modello, in quanto, sulla base fenomenologica ed esperienziale dei propri vissuti e di quelli delle persone che hanno seguito questa pratica di vita, Chiara Lubich e le sue prime compagne possono testimoniare i suoi straordinari effetti salvifici per l’umanità.

Affascinanti sono le caratteristiche di Gesù come educatore: “incarna egli stesso la sua dottrina”; “interviene in aiuto dei suoi, concretamente”; “crede alle possibilità”, “lascia libertà e responsabilità”; “non esita a correggere (...) quando occorre”, ma mostra sempre “la misericordia del Padre”; usa un “linguaggio vivo, immaginoso, concreto, breve...”; e da spazio “al dialogo”, “non teme di capovolgere la scala dei valori consueti[8].

Tale forte affermazione di cristocentrismo, che inserisce la pedagogia del carisma dell’unità di Chiara Lubich nel solco della pedagogia cristiana, ancorata alla tradizione patristica[9], presenta però subito una novità: il Cristo, il Magister, il Risorto, è colui che “abita tra gli abitanti della città”.

La centralità del Maestro-Gesù viene coniugata qui con la dimensione della relazione, dimensione centrale per l’esperienza e la riflessione pedagogica della modernità, gettando così luce su molti temi chiave della pedagogia moderna e contemporanea: il rapporto tra puerocentrismo e adultocentrismo, tra autonomia ed eteronomia, tra libertà e direttività nell’insegnamento.

Questa centralità della dimensione relazionale è una novità che richiederà studi ed approfondimenti, ma che appare già una vera e propria rivoluzione copernicana, che rende ragione di un nuovo paradigma educativo, radicato nella tradizione ma anche fortemente innovativo e capace di interpretare i temi e le sfide del presente e del futuro. 

Potremmo dire che la Lubich introduce una specie di modello sistemico di ricerca, riconoscendo la primarietà ontologica della relazione[10] che si realizza secondo la duplice dimensione del rapporto con Dio e con il prossimo.

Nel testo, inoltre, la relazione non si presenta solo nella sua dimensione di rapporto tra, ma come un “terzo elemento” (Gesù presente e vivo in mezzo a coloro che si amano) che diviene il vero Maestro[11].

 

La relazione educativa

 

La traccia di questa verità è la prossimità di Dio nel volto degli altri, di ogni prossimo. In questo senso il volto dell’altro è prova dell’idea d’Infinito che c’è in ogni essere umano, e, quindi, della più o meno conscia relazione che ciascun uomo ha con Dio. Essa si attualizza, appunto, nella concretezza della relazione con l’altro.

“L’esperienza, l’idea dell’infinito – scrive Emmanuel Lévinas (1905–1995)- ha luogo nel rapporto con Altri.”[12] e Martin Buber (1878-1965) sottolinea che lo scopo della relazione è il contatto con il Tu e che, in questo incontro, si coglie un alito della vita eterna.

Emmanuel Mounier (1905-1950), parlando delle tre dimensioni relative alla persona, dopo quella della “vocazione” (che la fa tendere all’unità) e dell’ “incarnazione” (che la radica nel tempo e nello spazio), indica la “comunicazione” che rappresenta il nesso essenziale fra le persone che, attraverso il vincolo dell’amore, permette il decentramento dell’io nel tu. 

Con Freire l’educazione stessa ci viene presentata quale “atto dialogico” [13] e sono numerose le teorie contemporanee che ponendo la “relazione” al centro della loro visione educativa, presentano una dialettica nuova tra educatore ed educando.

Si realizza così – sottolinea Tommaso Sorgi – una situazione nuova: “La realtà sociale che abbiamo davanti non è più diadica come in partenza, ma triadica. Vi è un terzo elemento: la Relazione che procede dai due soggetti. Essa ha raggiunto un grado di consistenza propria: è diventata in qualche misura una entità psicologica e sociale (soggettiva e oggettiva) (...) Questa compenetra le prime due Realtà (personali) e dà senso al loro insieme. Non è certo una terza persona, ma è un tertium reale, una realtà psicosociale che si pone in mezzo ai due e agisce sui due (tertium agens). Essa diventa una Realtà fra i due, che, nata e alimentata dal loro con-agire, a sua volta alimenta il loro agire, li aiuta a crescere come singoli e come gruppo, a realizzarsi in un dato modo e con una crescente profondità di vita. In qualche misura questa Realtà fra i due li avvolge anche, li contiene, li trasforma, condizionandoli dall’esterno e stimolandoli dall’interno. Senza annullare i due Io, ne favorisce una progressiva parziale interpenetrazione (...), fino a farne un ‘Noi’, un blocco vitale unico, anche se non assolutamente uno, che non è semplice somma o il mero rapportarsi dei due , ma una comunione di persone”[14].

 

Prospettive di ricerca

 

Da ciò consegue che l’educazione non ha solo bisogno della relazione, ma èrelazione, si attua nella relazione, e che tutti i soggetti dell’educazione – educatori, educandi e ambiente - esistono e si trasformano nella relazione.

 Le prospettive di ricercache si aprono sono tante, affascinanti, ricche di stimoli:

- si dovrà riscoprire l’identità, la vocazione dell’educatore, restituendo a questa società senza padri non certo la figura del padre autoritario, ma di colui che è capace di suscitare negli altri la vita e di dare valida risposta al disorientamento che blocca tanti.

- si dovranno enucleare gli elementi essenziali della relazione nella quale non solo educatore ed educando saranno ambedue soggetti e oggetti nel processo educativo, ma saranno canali l’uno per l’altro del dono dell’unico Maestro. Ciascun educatore, infatti, per la responsabilità che gli compete, sarà soggetto dell’educazione in una posizione dinamicamente asimmetrica rispetto all’educando, ma al tempo stesso si scoprirà oggetto dell’educazione da parte del vero Educatore e dell’educando stesso.

            - se, per i cristiani, tale relazione è basata sull’etica che Gesù ha portato sulla terra e che è sintetizzata nel suo comandamento “che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati[15], occorrerà approfondire principi etici assimilabili presenti nelle diverse culture e tradizioni religiose.

- occorrerà anche approfondire come poter mettere alla base in ogni fase del rapporto educativo la relazione vera (e quindi l’amore reciproco): dalla progettazione (che deve nascere da un’autentica relazione tra gli educatori), all’attuazione (che si sviluppa grazie a vive relazioni interpersonali sia tra soggetti singoli che collettivi), alla verifica. Questa scelta di fondo, porterà a posporre ogni cosa affinché sia possibile la relazione. La relazione, cioè la presenza viva del Maestro fra noi, viene prima delle capacità, delle conoscenze, dell’autorevolezza del docente; e viene prima della freschezza, della ricettività e dell’innovazione di cui il giovane è portatore. Essa viene prima della programmazione, che va comunque fatta e che deve essere continuamente rinnovata; prima del desiderio di raggiungere obiettivi particolari.

E’ questa la sfida che abbiamo davanti: per promuovere lo sviluppo di ogni personacome unità integrata nell’armonia delle diverse facoltà o dimensioni che la costituiscono, occorre realizzare un’educazione fondata su questo modello di relazione. Sarà questa la risposta alla tensione verso l’unità che costituisce l’uomo nella sua essenza profonda.

 
 
Francesco Châtel       


 

 

[1] Freire P., Pedagogia dell’autonomia, EGA, Torino 2004, p. 78.

[2] Lubic C., Gesù Maestro, nel presente fascicolo di “Nuova Umanità”, pp. ..

[3] Molto interessati, ad esempio, le “Scuole foreste” dell’Africa occidentale, gli eremi dei Guru indiani, o i monasteri buddisti e quelli zen. (Cfr. Grillo M.R., Il Maestro. Umanità e saggezza, Armando, Roma 2003, pp. 24-43).

[4] Cfr. Demolins E, L’educazione nuova: la scuola des Roches, La Nuova Italia, Brescia 1952.

[5] E’ il filo conduttore del pensiero di Rousseau (1712-1778) la cui espressione “Vivere è il mestiere che gli voglio insegnare” ha illuminato il cammino di tanti educatori. (Cfr. Rousseau J.J., Emilio o dell'educazione, Mondadori, Milano, 1997, libro I).

[6] Già nel 1961, ne I 10 punti per il Centro degli educatori, per il nascente Centro dell’educazione intitolato allora a S. Giovanni Bosco, Chiara Lubich cominciava con: “1) Riconoscere apertamente Gesù come il solo Maestro” (dattiloscritto inedito).

[7] “Uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli” (Mt 23,8).

[8] Lubich C., La famiglia e l’educazione, in Uno solo il Maestro, “ Città Nuova” n° 9, 1987, pp. 33-36.

[9] Ad esempio al De Magistro di S. Agostino.

[10] Afferma Agostino: “... il sentimento di un animo capace di condividere tanto può che, quando coloro che ci ascoltano sono impressionati da noi che parliamo e noi da loro che apprendono, ci si compenetra a vicenda: di conseguenza, quelli espongono quasi per bocca nostra ciò che ascoltano, mentre noi in certo modo apprendiamo da loro ciò che insegniamo.” (Sant’Agostino, La catechesi, 12.17, a cura di Ulisse Marinucci, Città Nuova, Roma 2005, p.125). L’educazione “lega indissolubilmente due spiriti” – nota Giovanni Gentile – tanto che educatore ed educando sono “entrambi insieme costituenti un solo spirito, che sente tutte le gioie della compagnia e nessuno dei fastidi” (Gentile G., Sommario di pedagogia come scienza filosofica, vol. I, Pedagogia generale, Sansoni, Firenze 1970, p.1).

[11] Concetto poi sviluppato e ripreso più volte dall’Autrice, come nella lezione del novembre 2000 in occasione del conferimento del dottorato honoris causa in pedagogia presso la Catholic University of America di Washington: “Nella nostra pedagogia, per la quale il piano spirituale e quello umano si compenetrano e si unificano (per l’Incarnazione), l’Utopia non è né sogno, né illusione, né meta inavvicinabile: essa è tra noi, e ne avvertiamo i frutti, quando attualizziamo il ‘Dove sono due o tre uniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro’ (cf. Mt 18,20): questo fa sì che la finalità, la meta più alta, sia realtà”. (Lubich C., La dottrina spirituale, Città Nuova, Roma 2006, pp. 317-318).

[12] Levinas E., La traccia dell’altro (1949), a cura di Ciaramelli F., Pironti, Napoli 1979, p. 15.

[13] “Attraverso il dialogo si verifica il superamento da cui emerge un dato nuovo: non più educatore dell’educando; non più educando dell’educatore; ma educatore-educando con educando-educatore. In tal modo l’educatore non è solo colui che educa, ma colui che, mentre educa, è educato nel dialogo con l’educando, il quale a sua volta, mentre è educato, anche educa. Ambedue così diventano soggetti del processo in cui crescono insieme e in cui gli ‘argomenti di autorità’ non hanno più valore...” (Freire P., La pedagogia degli oppressi, Mondadori, Milano 1971, p. 94).

[14] Sorgi T., Costruire il sociale, Città Nuova, Roma 1998, p. 82.

[15] Gv. 15,12

 

 

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